- NR. 238 "IL BALLO" 

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Innalzare fortezze intorno al suo castello immaginario, si stava trasformando in una visione così reale che in certi momenti riusciva addirittura a percepire la ruvidità delle pietre con i polpastrelli delle dita e respirare l'umidità dell'aria fatta di nuvole, fondamenta instabili dei suoi utopici sogni. 

Appena si oltrepassava il ponte levatoio ci si trovava davanti a quello che sembrava essere un labirinto, fatto da una siepe rosso purpurea che si rialzava fino a bloccare la vista dell'orizzonte anche dalla più alta torre del castello.  Le sue foglie secche precipitavano come pioggia in ricordo di un autunno perenne. Ogni angolo delle mura era circondato e legato indissolubilmente alle sue profonde radici, al che spesso si chiedeva perché avesse voluto, ad un certo punto della propria vita, costruire un ponte levatoio. 

Tra le strade del labirinto, il vento di scirocco riportava l'odore del mare provocando tempeste che duravano giorni interi, mentre fra i rami più alti, penzolavano, come bandiere a mezz'asta, dei lunghi fili rossi. 

Tempo addietro, quando la siepe era ancora bassa e verde, Revig, passava le giornate ad esplorarla con in mano il gomitolo di Arianna. 

Sentì un brivido lungo la schiena, un terrore claustrofobico, quando notò, addentrandosi, che i vicoli diventavano sempre più stretti e bui. 

Non si imbatté mai in nessuna bestia feroce, ne valorosi cavalieri, e presto si convinse che non esisteva nemmeno una via d'uscita. 

Era certa che con il tempo, il colore della siepe fosse mutato per via del suo filo rosso, per renderlo quasi invisibile. Un modo così poeticamente meschino per dirgli che non c'era una possibilità di fuga. 

Quasi ironico si può dire, essendo lei la sua creatrice. Evidentemente, non c'è sconfitta più grande che divenire artefici della propria prigionia. 

Non si vedevano visitatori casuali al castello. Tutto veniva creato e distrutto all'interno, in un loop eterno di follia. 

...

Il giorno 26 di un Maggio particolarmente caldo, Revig notò per la prima volta in tanti anni, delle crepe abnormi che trapassavano i muri da cima a fondo. 

Al di fuori di quel mondo sicuramente un evento cruciale, aveva riversato sulla sua creatura, l'imponenza di un terremoto. 

La cosa la fece preoccupare non poco. Corse all'interno del castello e con il respiro affannoso si ritrovò all'inizio di un corridoio illuminato da tutti e due i lati da candele bianche, consumate quasi del tutto. La loro cera ricopriva il pavimento e rilasciava un odore nauseante di lavanda. 

Lungo tutto il corridoio, che sembrava a primo impatto, non avere una fine, c'erano delle vecchie porte colorate sopra le quali era inciso un numero e una parola. 

Le stanze delle sue infinite vite.

Toccò quasi con timore la maniglia arrugginita della prima porta a destra:  NR. 1 "IL FIUME"

La spinse all'interno e la porta emise uno scricchiolio, l'eco del quale si disperse lungo il vuoto del corridoio. 

Entrando, i suoi capelli divennero rami di salice piangente, il battito cardiaco aumentò seguendo il fluire minaccioso di un fiume in piena. Riconobbe risate lontane di bambini che correvano spensierati a piedi nudi fra le pietre lisce e scivolose… ma indietreggiando di colpo… capì immediatamente che qualcosa non andava.

Aprì le altre porte trattenendo il respiro e vide scomparire una dopo l'altra, la sua casa sul mare, gli occhi azzurri, le spine… La sua luna divenne polvere e la musica dalla stanza blu si spense, lasciando intorno una profonda e silenziosa solitudine. 

Era da una vita che desiderava ardentemente andarsene, ma ora che gli si stava presentando la possibilità, non fece altro che rimanere impietrita, con occhi spalancati e pugni chiusi, come se potesse in qualche modo impedire, così, che le sue vite gli sfuggissero dalle mani.

 Aveva fatto del suo desiderio di scappare un obbiettivo, al che ora che tutto stava per cambiare, si sentì apatica e vuota, senza uno scopo, come un soldato in tempi di pace. 

Le ci volle un po' per ritornare in sé e razionalizzare ciò che stava accadendo intorno. 

"Se questo fosse il mio ultimo giorno… Se questa fosse la mia ultima vita… 238!! ...238!! …"

Si mise di colpo a correre all' impazzata urlando a squarciagola quel numero in continuazione con il terrore che fosse già troppo tardi...

Il suo cuore si riempì di gioia nel vederla ancora là, una porta così vecchia che i numeri e le lettere incise erano a malapena visibili. Ma poteva riconoscere fra mille i rimasugli di quel verde pastello slavato dal tempo. 

Dei boccoli biondo miele gli cadevano fin sotto le spalle, sfiorando il retro di un ampio vestito azzurro ghiaccio impreziosito con dei piccoli ricami argentati di fiori di calicanto. Stonava così tanto con i suoi piedi nudi e il ventaglio nero piumato che apriva per nascondere il volto quasi del tutto, ma a nessuno sembrava importare. 

Dietro quella porta, nella sala color cremisi, circondate da enormi finestre, ciascuna divisa da quella vicina da un pilastro, le coppie erano occupate a danzare in cerchio con una tale maestria che sembravano fluttuare. 

Tutti tranne lui. 

Lo notò appena mise piede nella stanza, l'unica persona che sembrava non appartenere a quel mondo. Eppure era lì ad aspettarla. Lo aspettava sempre, ad ogni stanza, e lei riusciva sempre a trovarlo. 

I corpi iniziarono a diventare quasi trasparenti, i volti senza espressioni. Nessuno smise di danzare. 

Se questo fosse stato un risveglio o una disfatta, non era ancora certo, ma con la consapevolezza che l'alba dell'indomani non sarebbe giunta, si concesse la libertà di muoversi a passo lento verso di lui, assaporando ogni attimo, come un condannato a morte che si fa strada verso il patibolo.

In lontananza si riusciva a sentire ancora il Valzer Numero 2 di Sostakovic. 

Non si rese nemmeno conto che stava piangendo, mentre teneva impassibile uno sguardo stanco ma fiero. 

Gli tese la sua piccola mano accennando un leggero sorriso e quasi sottovoce disse:

*"Ormai siamo alla fine amore mio. Mi concederesti un ultimo ballo?"*